No, non parleremo di #fertilityday. Se ne è parlato già tanto e non c’è bisogno di aggiungere altro ad un accadimento così pietoso. Parleremo invece delle cattive pubblicità, quella magari non firmate da Ministeri o Istituzioni per cui non suscitano tanto clamore ma tali da diventare fenomeni virali o comunque portati all’attenzione del grande pubblico.

Parleremo quindi di ciò che sgomenta i pubblicitari, di professione, quando capitano sotto i loro occhi alcune pubblicità. E’ mai possibile che dopo anni di comunicazione, studi, scuole e presunti corsi circolino ancora delle vere e proprie schifezze che nulla c’entrano con la parola pubblicità?

Chi si occupa seriamente di pubblicità un paio di cose dovrebbe averle imparate.

La provocazione non funziona più. Chi imita il lavoro di Oliviero Toscani (pubblicità degli anni 80 per il marchio Benetton) o, parlando di provocazione, ci si riferisce ad esso, ignora non solo il valore delle fotografie e il messaggio ma anche il contesto sociale e i valori di riferimento di quegli anni. Quelle stesse immagini oggi rischierebbero di non avere più senso. In generale il “purchè se ne parli” andava bene prima quando il clamore o la protesta serviva per avere più visibilità. Oggi che gran parte del pubblico ha un accesso social provocare pubblicitariamente rischia di avere un effetto negativo sull’immagine della brand e quindi sulle vendite. Negli ultimi anni molti marchi, più o meno noti, ne hanno fatto le spese. La provocazione deve avere pertanto un senso e un obiettivo preciso ma questo è difficile, non è un caso che solo Toscani e pochi altri siano stati maestri in questo.

Usare il sesso o riferimenti sessuali più o meno espliciti nella pubblicità è come rubare le caramelle ad un bambino. Il pubblicitario che oggi ne fa ricorso dimostra limiti di creatività e di pensiero notevoli. Soprattutto quando il sesso non c’entra niente con il prodotto o l’azienda. Quindi farete anche ridere, diventerete forse virali e probabilmente aiuterete a vendere qualcosina in più, a breve termine, ma è un qualcosa che non ha più senso. Bene misurarsi, se creativi siete, su ben altri campi.

Utilizzare corpi femminili, maschili nella pubblicità. Solo quando c’è attinenza col prodotto ma meglio usare altre metafore. Grandi marchi che lavorano nel settore hanno già dimostrato da tempo che si può parlare di sesso e dintorni senza menzionarlo e senza volgarità. Perchè dovrebbe farlo chi non ha nulla a che fare con la fisicità di un uomo o una donna. I tempi di Saratoga sono finiti. Stupidi grafici cresciuti chissà dove.

La promozione non è pubblicità. C’è una gran confusione, generata peraltro proprio dagli addetti al settore. Il pubblico potrebbe non coglierne il senso, in quanto esso deve essere solo stimolato ad un azione. Deve essere il pubblicitario, l’uomo di marketing a conoscere la differenza tra le due e cosa comporti l’una o l’altra. Purtroppo, ripeto, non sono la stessa cosa.

Adesso che gran parte dei comunicatori non fa gavetta, esperienze importanti, studi fondamentali, ma è nella maggior parti dei casi autodidatta o cresciuta in piccole fattorie umane, rischiamo l’ennesima deriva pubblicitaria. Già il digitale ha creato non pochi problemi, spiazzando la pubblicità tradizionale ma generando nuovi linguaggi e innovando in strumenti e tecniche. Ma se tali strumenti vengono poi affidati a pseudo professionisti che a stento riconoscono la differenza tra visual e immagine, tra significante e significato, tra segno e meme, tra testo e copy, allora la pubblicità è spacciata. Già grandi pubblicitari si sono ritirati dalle scene dichiarandone la morte e l’inutilità. Necessaria quindi una nuova cultura della comunicazione di cui qualcuno tra gli addetti al settore -creativi, grandi agenzie, associazioni varie- dovrà prendersi carico. Saranno in grado?

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Luca Scrimieri

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