Marketing della cultura o cultura del marketing? È innanzitutto un problema di cultura del marketing. Gli addetti al settore (critici, funzionario, esperti) sono dichiaratamente ostili all’utilizzo del marketing e dei processi aziendali, quali ad es. pianificazione e gestione, che ben possono fare nella tutela e nella valorizzazione dei beni culturali. Non solo non conoscono il marketing ma non capiscono il potente contributo che il marketing culturale, con i suoi numerosi strumenti, può dare a musei, mostre, teatri e tutto ciò che è cultura.

Strategia o tattica? Le azioni di marketing sono spesso sporadiche e non risolvono le problematiche di fondo legate al “consumo” della cultura. Una semplice attività promozionale non è marketing. La mancanza di una strategia di medio-lungo periodo che punti alla continuità e alla sostenibilità della cultura non può essere colmata da brevi e sparute pubblicità, seppur interessanti. Inoltre si dimentica, ad esempio, quando si parla di musei (in Italia oltre 7000) che ognuno è diverso, per territorio, per beni materiali, per storia ed esperienza, per cui strutture diverse richiederebbero anche approcci strategici diversi.
Servono soldi o no? La mancanza di risorse economiche è spesso additata a causa del problema. È vero che per attuare pratiche di marketing corrette e valide è sovente necessario disporre di un adeguato budget, ma questo attiene alla fase di realizzazione delle attività, non certo e non solo alla fase strategica. In ogni caso trovare fondi non è il problema principale. Le risorse andrebbero ottimizzate e finalizzate perché quando ci sono, esse vengono dissipate inutilmente. Un’attenzione manageriale a costi e ricavi risolverebbe gran parte dei problemi.
La cultura, l’arte, è una cosa seria, come il marketing. Perché non realizzare questo connubio?
Prendendo a titolo di esempio il marketing museale, pur avvertendo che esso è solo una parte del marketing culturale, gli argomenti su cui indirizzare i discorsi sono: capire l’offerta museale, studiare l’evoluzione dei musei, guardare alle esperienze estere, ragionare in termini di service marketing e marketing esperienziale, realizzare valore, creare un posizionamento valido e scoprire nuove modalità di comunicazione.
I livelli di comunicazione partono dal prodotto per passare alla marca ed arrivare ai simboli. Primo livello: prodotto oggetto, quando è sufficiente mostrarlo, renderlo noto per favorirne la vendita. Secondo: la marca, con le sue promesse, interagisce, mantiene, soddisfa e crea un sistema valoriale di riferimento per indirizzare il vissuto del fruitore. Terzo: i simboli, le emozioni, le esperienze catartiche. Siamo nell’essenza della marca, nella sua capacità empatica di intrattenere, di dire “ti sono accanto/sono qui”, invece di “comprami”, creando un metalinguaggio dove il processo di acquisto tende a rimanere in secondo piano. Ora adeguate questi livelli al mondo dei musei. In Italia si adotta il primo, poco il secondo, quasi mai il terzo, tranne qualche rara eccezione. Insomma di strada da fare per “vendere” un museo ce n’è ancora parecchia.

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Luca Scrimieri

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