Lo storytelling è uno degli argomenti più affascinanti nel mondo del marketing e il nuovo anno lo vedrà ancora più protagonista. Data la quantità di guru che sembrano circolare negli ultimi tempi e per tentare di frenare quest’abitudine tutta italiota di sentirsi esperti pur non avendo mai varcato la soglia di una vera azienda o essersi cimentati in un reale piano di marketing è necessario fare un po’ di chiarezza e mettere qualche paletto, sempre a beneficio di chi opera o intende operare seriamente nel marketing e nella comunicazione.
Primo. Storytelling vuol dire narrare. La forza coinvolgente della narrazione consiste nella capacità di trasformare la percezione delle cose del mondo, spesso banali e povere di senso, in altre più interessanti perché acquistino spessore grazie alla loro capacità di connettersi con metafore, esperienze pregresse o emozioni (cit. F.Gallucci). L’autore ha usato tre parole: spessore, connessione, emozioni. Se la storia non smuove alcuna emozione, in altre parole se non attiva il sistema parasimpatico del pubblico non si può parlare di storytelling. Appare superfluo sottolinearlo ma è necessario visto la quantità di immondizia che sta circolando travestita da presunta narrazione.
Secondo. Lo storytelling esiste da sempre ed è fondato sul passaparola. I menestrelli, i girovaghi, i barbieri, le comari, il barista fidato erano tipici esempi di storyteller. Le leggende, Robin Hood, Lockness, Dracula sono divenute tali grazie ai naturali meccanismi del passaparola. Le aziende, o meglio la comunicazione di marca si è affidata allo storytelling da quando sono apparsi i media. Attraverso la pubblicità in modo particolare. Gli spot televisivi sono l'espressione narrativa che ha prevalso nella comunicazione di marca degli ultimi decenni ma l'avvento di internet e dei social ha cambiato le regole del gioco, passando da una comunicazione unidirezionale (da marca a pubblico) ad una bidirezionale (da marca a pubblico e da pubblico a marca) e multidirezionale (da pubblico a pubblico). I meccanismi tradizionali pertanto, in ambiente digitale, sono saltati e questo ha causato la ridefinizione di nuovi modi di intendere e sviluppare lo storytelling nelle sue molteplici forme.
Terzo. La creatività. Un contenuto sorprendente si lascia leggere agevolmente, genera la voglia di raccontare e di condividere. Le aziende pertanto devono essere molto attente alla creatività insita nella propria comunicazione, indipendentemente dai canali che usano. Una comunicazione fresca, creativa, sorprendente non solo permette alla marca di differenziarsi nel mare magnum pubblicitario ma induce gli utenti che lo ricevono a parlare del messaggio stesso e spesso della stessa marca. Essere banali, standardizzati, formali o parlar per luoghi comuni e la cosa peggiore che si possa fare.
Quarto. Una buona storia. È importante trovare una bella storia da narrare. Per un’azienda la ricerca di una storia parte dai bisogni e desideri che possono essere soddisfatti dalla propria marca, prodotti, servizi e si conclude trovando il modo migliore per creare un racconto che trasformi lo stato di insoddisfazione ad uno di appagamento. Occorre visualizzare la dimensione emotiva e simbolica connessa al consumo e trasferirla. Una buona storia da raccontare deve uscire dall’ordinario e fare appello all’immaginazione della gente. Trovato ciò occorre poi rispettare una serie di vincoli quali la lunghezza (video non molto lunghi), la serialità (pubblicazioni frequenti), il tempismo (con il contesto e con ciò che accade), l’intuizione (capire ciò che le persone possono gradire e scambiare).
Quinto. Contenuto virale. Parlare di marketing virale è più semplice che attuarlo. Cova, Giordano e Pallera nel libro “Marketing non convenzionale” individuano 4 momenti: progettare il Dna virale di una campagna, identificare il target, fare seeding (inseminare i contenuti virali nei social), incoraggiare la condivisione. Fasi non semplici da pianificare a tavolino perché il virale, nel bene e nel male, ha in se una dose di imprevedibilità per cui, a dirla con le parole di Nalts “nessun video può dirsi virale prima di essere diventato tale”. Anche se difficile possiamo trarre però dei consigli utili, ripercorrendo lo studio di Joseph Sassons.
Eccoli. Evitare l’approccio da venditore, esaltando i propri prodotti con forte pressione e ripetizione. Guardare alle produzioni di storie spontanee degli utenti. Studiare i format che hanno successo. Puntare sulla novità e l’originalità. Parlare come un essere umano. Tener conto di come funziona il passaparola. Valorizzare l’ironia. Non essere troppo formali. Evitare film troppo lunghi. Differenziarsi dagli altri. Non pensare che i prodotti o la marca siano la cosa più importante da comunicare. Emozionare. Far immaginare. Costruire due piani logici. Introdurre svolte impreviste. Ricorrere a trasgressioni logiche. Drammatizzare. Giocare con i contrasti. Utilizzare ruoli che possano aiutare la storia a svilupparsi. Essere trasparenti.
Se i Social media si sono sviluppati tanto non è perché sono dei media ma perché sono social.
Le persone amano comunicare con altre persone e non con entità astratte e poiché i social permettono questo, ogni azienda deve considerare la dimensione umana al di sopra di ogni aspetto tecnologico, organizzativo o altro. Questo vuol dire anche politiche coerenti. Immaginare uno storytelling aziendale che racconti passione, dedizione e lavoro e poi rispondere ai propri consumatori attraverso una segreteria telefonica o tramite addetti maleducati non è una grande strategia. Ma questo è un altro discorso…
Alcuni esempi di storie virali:
Volkswagen: la forza http://youtu.be/R55e-uHQna0
I minifilm di Bmw
Do The test
Blendtec: il frullatore
Coca cola: the Ofw project
Tate modern gallery
Old spice
Stride gum
Cadbury gorilla
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